di Fabio Cavallucci.
Se si scorre la storia recente dell’architettura, quella prodotta dalle archistar, dai Piano e dai Foster, dai Koohlaas e dai Gehry, si osserva abbastanza facilmente che essi non hanno fatto altro che ricalcare le forme della scultura postcubista e minimalista. Insomma, quanto a ricerca estetica l’architettura si è fermata ai modelli della scultura degli anni Sessanta. E’ ovvio, non poteva andare oltre, visto che la dimensione degli edifici e le leggi della statica non consentono di fare molto di più, anche usando le più sofisticate tecnologie e i nuovissimi materiali. Cosa fa Koohlaas, per esempio? Reitera il cubo e il paralellepipedo, li sviluppa in tutte le loro possibili combinazioni, li raddoppia, li tripica, li ruota, muovendo appena un po’ di più le figure solide già largamente esplorate da Robert Morris o da Sol LeWitt. Cosa fa Gehry? Prende delle forme tridimensionali, le spacca, le apre e le srotola, giungendo al massimo a quanto avevano fatto la scultura postcubista e informale, i nostri Mastroianni o il primo Somaini.
E’ strano pensare che l’architettura goda in questo momento di una così alta considerazione sociale e politica, e che invece della scultura si sia quasi dimenticata la parola. Ma è la necessità dei tempi. L’architettura manifesta insieme un immaginario visivo e una funzione: una giustificazione dell’investimento economico, quest’ultima, comprensibile a tutti. Ma cosa sarebbe stato del nostro paesaggio urbano se tanti scultori non avessero sperimentato “in vitro” quei linguaggi che poi, trenta o quarant’anni dopo, appaiono come novità nelle nostre metropoli?
Possiamo interpretare il percorso di Mauro Staccioli come dettato dalla lucidissima comprensione della necessità di un rapporto con l’architettura. Infatti gran parte della sua opera presenta almeno tre caratteri di similarità con l’arte di Vitruvio: l’aspirazione al “fare grande”, la relazione con lo spazio, e la tipologia di materiali. Quanto al primo punto, basti ricordare la grande iperbole del Parco Olimpico di Seoul nel 1988, lunga più di trenta metri. Per il secondo è sufficiente gettare uno sguardo a qualsiasi momento della sua ricerca, a partire ancora da quella mostra del 1972 nella sua terra dove adesso ritorna, a Volterra, in cui i suoi segni si rapportavano con le mura e gli edifici storici, suggerendo situazioni di minaccia, di difesa, di barricate urbane.
Quanto all’ultimo, Staccioli ha sempre utilizzato materiali costruttivi tradizionali, mattoni e intonaco, ferrocemento, talvolta pietra, quasi a definire attraverso di essi la volontà di collocarsi nel campo costruttivo dell’architettura, ma anche di voler riservare per sè uno spazio tradizionale, manifestando una preferenza per l’artigianato edile di campagna, piuttosto che per la tecnologia della metropoli cittadina. Se nei primi due ambiti l’artista ha sperimentato quasi tutto, tutte le forme geometriche possibili e tutte le combinazioni con lo spazio, da quello urbano a quello naturale, dando luogo a percezioni e oserei dire sentimenti di volta in volta diversi, quanto alla ricerca sui materiali mancava un tassello. Vi pone rimedio con questo nuovo lavoro di Impruneta, dove la situazione produttiva del territorio, e lo specifico della Fornace Poggi Ugo che glielo commissiona, invita, per non dire impone, di utilizzare il cotto, quel materiale che rappresenta la principale tradizione del luogo, insieme alla sua ancora vitale rilevanza produttiva internazionale. E in un territorio come quello toscano, che ha saputo da secoli comporre un giusto equilibrio tra la natura e l’intervento artificiale, questo anello di cotto si colloca con forza e insieme con naturalezza. Potrebbe essere un insegnamento per tanti architetti. Speriamo che lo seguano… almeno tra trenta o quarant’anni.
Vi ringrazio molto bella
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